L’atrio del platano
Attraverso il vestibolo in cui sono collocate le statue in gesso di Omero, Aristide, Cicerone e Demostene, copie di originali conservati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, si accede al Chiostro del platano o Atrio terzo, edificato nella seconda metà del Quattrocento. Di forma quadrata, coperto con volte a crociera, il Chiostro originariamente era aperto, scandito da colonne, sostituite poi dagli attuali pilastri in piperno, dalla singolare forma a candelabro. Anche il piano superiore era aperto in forma di loggiato, con copertura a tetto, secondo uno schema tipico dei chiostri quattrocenteschi toscani: maestranze toscane e lombarde, infatti, si avvicendarono nei lavori tra il 1450 ed il 1463, come è raccontato nel libro dei “Cunti del Monastero”.
Risale alla seconda metà dell’Ottocento la chiusura delle arcate con infissi, sia al piano terra che al primo piano; unici elementi superstiti dell’originaria struttura quattrocentesca sono i peducci pensili in piperno, che ripropongono sui muri perimetrali, variamente interpretata, la tipologia del capitello ionico e la cornice, anch’essa in piperno, che inquadra la porta di collegamento con la chiesa.Al centro del giardino si erge il maestoso platano della specie orientale, da cui il chiostro prende nome, unico superstite del boschetto di platani che – si racconta – Anicio Equizio, padre di San Mauro, donò ai monaci benedettini. Secondo una leggenda il platano fu piantato da San Benedetto, che attribuì alle foglie poteri medicamentosi, ma l’albero che si ammira oggi è nato da un precedente esemplare che è stato abbattuto nel 1953, perché attaccato dalle termiti.

Su due lati del Chiostro Antonio Solario detto lo Zingaro, pittore di scuola veneta, con la sua bottega realizzò, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, un ciclo di affreschi sulla vita di San Benedetto, ripercorrendo fedelmente il racconto scritto da Gregorio Magno nel II libro dei suoi Dialoghi. Il primo affresco, che racconta la partenza del santo da Norcia per raggiungere Roma, accompagnato dalla nutrice, dal padre e da vari fanti, è l’unico realizzato in monocromo verde: questa tecnica probabilmente non piacque ai monaci, per cui il ciclo prosegue a colori, con il racconto del soggiorno di san Benedetto ad Efide vicino Subiaco, della scelta di vita spirituale, dei miracoli compiuti nella valle dell’Aniene, fino alla fondazione di Montecassino e all’incontro con Totila re dei Goti. Il ciclo si interrompe alla ventesima scena, probabilmente per la morte del pittore o per una sospensione dei pagamenti.
Esempio notevole di pittura rinascimentale a Napoli gli affreschi si caratterizzano per ricchezza di particolari architettonici e naturalistici: elementi tipicamente veneti sono le cupole in rame delle chiese, i campanili scanalati in mattoni, i comignoli a forma di imbuto, mentre umbro-marchigiano è il carattere della vegetazione raffigurata. Ciascun episodio è inserito in un’apposita cornice, dipinta in prospettiva, in cui sono integrati i peducci pensili in piperno: particolarmente suggestiva doveva essere, quando il Chiostro era ancora aperto, la corrispondenza tra la successione delle arcate su colonne verso il giardino e la sequenza dei dipinti rappresentati nelle cornici, esattamente in corrispondenza di ciascuna campata.
I critici d’arte hanno attribuito al Solario i primi dieci affreschi, mentre quelli successivi rivelano la partecipazione di aiuti, tra cui spicca il nome di Pietro da Tolentino. Negli ultimi due, inoltre, si riscontra minore rigore prospettico nelle architetture e minore cura dei particolari nel paesaggio.
L’opera ha subìto vari danni nel corso del tempo, dovuti sia all’umidità dell’ambiente, sia ai cambiamenti di destinazione d’uso del chiostro, che solo con l’avvento dell’Unità d’Italia viene definitivamente ceduto dai monaci benedettini. L’ultimo restauro di tipo conservativo, cui gli affreschi sono stati sottoposti, risale al 1980.

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